Già il treno ci riportava, oltre la capitale, verso il sud. Era
notte, e non mi riusciva di dormire. Seduto sulla dura panca, andavo
ripensando ai giorni passati, a quel senso di estraneità, e alla totale
incomprensione dei politici per la vita di quei paesi verso cui mi
affrettavo. Tutti mi avevano chiesto notizie del mezzogiorno; a tutti
avevo raccontato quello che avevo visto: e, se tutti mi avevano
ascoltato con interesse, ben pochi mi era parso volessero realmente
capire quello che dicevo. Erano uomini di varie opinioni e temperamenti:
dagli estremisti più accesi ai più rigidi conservatori. Molti erano
uomini di vero ingegno e tutti dicevano di aver meditato sul « problema
meridionale » e avevano pronte le loro formule e i loro schemi. Ma così
come queste loro formule e schemi, e perfino il linguaggio e le parole
usate per esprimerli sarebbero stati incomprensibili all'orecchio dei
contadini, così la vita e i bisogni dei contadini erano per essi un
mondo chiuso, che neppure si curavano di penetrare. Erano, in fondo,
tutti (mi pareva ora di vederlo chiaramente) degli adoratori, più o meno
inconsapevoli, dello Stato; degli idolatri che si ignoravano.
Non importava se il loro Stato fosse quello attuale, o quello che
vagheggiavano nel futuro: nell'uno e nell'altro caso era lo Stato,
inteso come qualcosa di trascendente alle persone e alla vita del
popolo; tirannico o paternamente provvidente, dittatoriale o
democratico, ma sempre unitario, centralizzato e lontano. Di qui la
impossibilità, fra i politici e i miei contadini, di intendere e di
essere intesi. Di qui il semplicismo, spesso ammantato di espressioni
filosofeggianti, dei politici, e l'astrattezza delle loro soluzioni, non
mai aderenti a una realtà viva, ma schematiche, parziali, e così presto
invecchiate. Quindici anni di fascismo avevano fatto dimenticare a
tutti il problema meridionale; e, se ora dovevano riproporselo, non
sapevano vederlo che in funzione a qualcosa d'altro, alle generiche
finzioni mediatrici del partito o della classe, o magari della razza.
Alcuni vedevano in esso un puro problema economico e tecnico,
parlavano di opere pubbliche, di bonifiche, di necessaria
industrializzazione, di colonizzazione interna, o si riferivano ai
vecchi programmi socialisti «rifare l'Italia». Altri non vi vedevano che
una triste eredità storica, una tradizione di borbonica servitù, che
una democrazia liberale avrebbe un po' per volta eliminato. Altri
sentenziavano non essere altro, il problema meridionale, che un caso
particolare della oppressione capitalistica, che la dittatura del
proletariato avrebbe senz'altro risolto. Altri ancora pensavano a una
vera inferiorità di razza, e parlavano del sud come di un peso morto per
l'Italia del nord, e studiavano le provvidenze per ovviare, dall'alto, a
questo doloroso stato di fatto. Per tutti, lo Stato avrebbe potuto fare
qualcosa, qualcosa di molto utile, benefico, e provvidenziale: e mi
avevano guardato con stupore quando io avevo detto che lo Stato, come
essi lo intendevano, era invece l'ostacolo fondamentale a che si facesse
qualunque cosa.
Non può essere lo Stato, avevo detto, a risolvere la questione
meridionale, per la ragione che quello che noi chiamiamo problema
meridionale non è altro che il problema dello Stato. Fra lo statalismo
fascista, lo statalismo liberale, lo statalismo socialistico, e tutte
quelle altre future forme di statalismo che in un paese piccolo-borghese
come il nostro cercheranno di sorgere, e l'antistatalismo dei
contadini, c'è, e ci sarà sempre, un abisso; e si potrà cercare di
colmarlo soltanto quando riusciremo a creare una forma di Stato di cui
anche i contadini si sentano parte. Le opere pubbliche, le bonifiche,
sono ottime cose, ma non risolvono il problema. La colonizzazione
interna potrà avere dei discreti frutti materiali, ma tutta l'Italia,
non solo il mezzogiorno, diventerebbe una colonia. I piani centralizzati
possono portare grandi risultati pratici, ma sotto qualunque segno
resterebbero due Italie ostili. Il problema di cui parliamo è molto più
complesso di quanto pensiate. Ha tre diversi aspetti, che sono le tre
facce di una sola realtà, e che non possono essere intese né risolte
separatamente.
Siamo anzitutto di fronte al coesistere di due civiltà
diversissime; nessuna delle quali è in grado di assimilare l'altra.
Campagna e città, civiltà precristiana e civiltà non più cristiana,
stanno di fronte; e finché la seconda continuerà ad imporre alla prima
la sua teocrazia statale, il dissidio continuerà. La guerra attuale, e
quelle che verranno, sono in gran parte il risultato di questo dissidio
secolare, giunto ora alla sua più intensa acutezza, e non soltanto in
Italia. La civiltà contadina sarà sempre vinta, ma non si lascerà mai
schiacciare del tutto, si conserverà sotto i veli della pazienza, per
esplodere di tratto in tratto; e la crisi mortale si perpetuerà. Il
brigantaggio, guerra contadina, ne è la prova: e quello del secolo
scorso non sarà l'ultimo. Finché Roma governerà Matera, Matera sarà
anarchica e disperata, e Roma disperata e tirannica.
Il secondo aspetto del problema è quello economico: è il problema
della miseria. Quelle terre si sono andate progressivamente
impoverendo; le foreste sono state tagliate, i fiumi si sono fatti
torrenti, gli animali si sono diradati, invece degli alberi, dei prati e
dei boschi, ci si è ostinati a coltivare il grano in terre inadatte.
Non ci sono capitali, non c'è industria, non c'è risparmio, non ci sono
scuole, l'emigrazione è diventata impossibile, le tasse sono
insopportabili e sproporzionate: e dappertutto regna la malaria. Tutto
ciò è in buona parte il risultato delle buone intenzioni e degli sforzi
dello Stato, di uno Stato che non sarà mai quello dei contadini, e che
per essi ha creato soltanto miseria e deserto.
Infine c'è il lato sociale del problema. Si usa dire che il
grande nemico è il latifondo, il grande proprietario; e certamente, là
dove il latifondo esiste, esso è tutt'altro che una istituzione
benefica. Ma se il grande proprietario, che sta a Napoli, a Roma, o a
Palermo, è un nemico dei contadini, non è tuttavia il maggiore né il più
gravoso. Egli almeno è lontano, e non pesa quotidianamente sulla vita
di tutti. Il vero nemico, quello che impedisce ogni libertà e ogni
possibilità di esistenza civile è la piccola borghesia dei paesi. È una
classe degenerata, fisicamente e moralmente: incapace di adempiere la
sua funzione, e che solo vive di piccole rapine e della tradizione
imbastardita di un diritto feudale. Finché questa classe non sarà
soppressa e sostituita non si potrà pensare di risolvere il problema
meridionale.
Questo problema, nel suo triplice aspetto, preesisteva al
fascismo; ma il fascismo, pure non parlandone più, e negandolo, l'ha
portato alla sua massima acutezza, perché con lui lo statalismo
piccolo-borghese è arrivato alla più completa affermazione. Noi non
possiamo oggi prevedere quali forme politiche si preparino per il
futuro: ma in un paese di piccola borghesia come l'Italia, e nel quale
le ideologie piccolo-borghesi sono andate contagiando anche le classi
popolari cittadine, purtroppo è probabile che le nuove istituzioni che
seguiranno al fascismo, per evoluzione lenta o per opera di violenza, e
anche le più estreme e apparentemente rivoluzionarie fra esse, saranno
riportate a riaffermare, in modi diversi, quelle ideologie; ricreeranno
uno Stato altrettanto, e forse più lontano dalla vita, idolatrico e
astratto, perpetueranno e peggioreranno, sotto nuovi nomi e nuove
bandiere, l'eterno fascismo italiano, Senza una rivoluzione contadina,
non avremo mai una vera rivoluzione italiana, e viceversa. Le due cose
si identificano. Il problema meridionale non si risolve dentro lo Stato
attuale, né dentro quelli che, senza contraddirlo radicalmente, lo
seguiranno. Si risolverà soltanto fuori di essi, se sapremo creare una
nuova idea politica e una nuova forma di Stato, che sia anche lo Stato
dei contadini; che li liberi dalla loro forzata anarchia e dalla loro
necessaria indifferenza. Né si può risolvere con le sole forze del
mezzogiorno: ché in questo caso avremmo una guerra civile, un nuovo
atroce brigantaggio, che finirebbe, al solito, con la sconfitta
contadina, e il disastro generale; ma soltanto con l'opera di tutta
l'Italia, e il suo radicale rinnovamento.
Bisogna che noi ci rendiamo capaci di pensare e di creare un
nuovo Stato, che non può più essere né quello fascista, né quello
liberale, né quello comunista, forme tutte diverse e sostanzialmente
identiche della stessa religione statale. Dobbiamo ripensare ai
fondamenti stessi dell'idea di Stato: al concetto di individuo che ne è
alla base; e, al tradizionale concetto giuridico e astratto di
individuo, dobbiamo sostituire un nuovo concetto, che esprima la realtà
vivente, che abolisca la invalicabile trascendenza di individuo e di
Stato. L'individuo non è una entità chiusa, ma un rapporto, il luogo di
tutti i rapporti. Questo concetto di relazione, fuori della quale
l'individuo non esiste, è lo stesso che definisce lo Stato. Individuo e
Stato coincidono nella loro essenza, e devono arrivare a coincidere
nella pratica quotidiana, per esistere entrambi. Questo capovolgimento
della politica, che va inconsapevolmente maturando, è implicito nella
civiltà contadina, ed è l'unica strada che ci permetterà di uscire dal
giro vizioso di fascismo e antifascismo. Questa strada si chiama
autonomia. Lo Stato non può essere che l'insieme di infinite autonomie,
una organica federazione. Per i contadini, la cellula dello Stato,
quella sola per cui essi potranno partecipare alla molteplice vita
collettiva, non può essere che il comune rurale autonomo. È questa la
sola forma statale che possa avviare a soluzione contemporanea i tre
aspetti interdipendenti del problema meridionale; che possa permettere
la coesistenza di due diverse civiltà, senza che l'una opprima l'altra,
né l'altra gravi sull'una; che consenta, nei limiti del possibile, le
condizioni migliori per liberarsi dalla miseria; e che infine,
attraverso l'abolizione di ogni potere e funzione sia dei grandi
proprietari che della piccola borghesia locale, consenta al popolo
contadino di vivere, per sé e per tutti. Ma l'autonomia del comune
rurale non potrà esistere senza l'autonomia delle fabbriche, delle
scuole, delle città; di tutte le forme della vita sociale. Questo è
quello che ho appreso in un anno di vita sotterranea.
Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli (1944)